Ciao, ti ricordi quando mi hai stuprata?

Trigger Warning: Violenza psicologica, stupro, victim blaming

Premetto che mi sono rotta le pigne delle narrazioni melodrammatiche, e il mio #metoo è decisamente più un #purio ma l’argomento è forte quindi ho ritenuto necessario rispettare la sensibilità altrui. Non siete costretti a leggere l’ennesima storia di stupro, e mi fa paura la parola anche a me. Poi solitamente vi pubblico cosine di scrittura creativa, quindi se volete fuggire perché non è il momento, lo capisco. Ringrazio coloro che andranno avanti considerate le premesse.

Ci ho messo più di tre anni ad usare la parola con la s., e preferisco tuttora dire che sono stata vittima di violenza o che mi hanno costretta a fare sesso. È stata la mia psicologa a dirmi che quello che le stavo raccontando era a tutti gli effetti, senza alcun minimo dubbio interpretativo, una violenza sessuale. E sentirselo dire non è stato bello, perché non volevo fare la vittima. Specie dopo anni. E quello che succederà con questo articolo è che riceverò un sacco di “mi dispiace”, “oh, non lo sapevo”. Lo so che non lo sapevate, non lo sapevo neanche io. Era stata una cosa così brutta che l’avevo cancellata dalla mia memoria e ne avevo parlato in maniera veramente vaga e autoironica, colpevolizzandomi lì per lì.

Il motivo per cui ho deciso di tirare fuori questa storia è che ho pensato che se la me di qualche anno fa l’avesse letta forse si sarebbe comportata in maniera diversa, si sarebbe forse voluta più bene. Vorrei avesse uno scopo didattico, un’educazione al consenso che manca da entrambe le parti troppo spesso. Il fatto che fra le donne giri sempre di più lo slogan “Rispetta te stessa, impara a dire di no” vuol dire che per un po’ di tempo i nostri no avevano l’impatto di una vaga eco lontana, fuori da comuni sistemi di comunicazione, dei no estranei al linguaggio, un po’ alieni. Io non credo che uno possa nascere senza amor proprio ma credo che sia molto facile che impari a negarselo nella società in cui vive.

Nonostante io già all’epoca non fossi estranea agli ambienti femministi e qualcosa a riguardo avessi letto, non sono stata minimamente in grado di reagire. E non parlo del momento stesso in cui avveniva la violenza, di quello non mi incolpo più dopo aver letto che ci sono studi specifici sull’immobilità delle vittime, ma del dopo. Avrei dovuto denunciare, avrei almeno potuto tentare, avrei almeno potuto descrivere la cosa per quello che era. E invece ho continuato ad uscire per settimane con questo ragazzo, che mi mandava almeno sei selfie al giorno, che non sembrava minimamente percepirmi come un essere umano, che mi chiamava la sua ragazza nonostante io avessi messo in chiaro che stavamo solo uscendo assieme, e mi toccava il sedere in pubblico come fosse-non lo so io-roba sua.

Ma voi vorrete i particolari adesso, perché chi ve lo dice che non sto esagerando? Che in fondo, dai, ci stavo e che tutta la caterva di sintomi psicosomatici che sono comparsi dopo sono una curiosa coincidenza, qualcosa che viene da quel regno estraneo al reale dove vagano tutti i no inascoltati e che forse non esiste. A questo punto vorrei ringraziare la mia amica Melissa, perché se non avesse avuto il coraggio lei, da giornalista, di metterci la faccia e raccontare il suo s., non ce l’avrei mai fatta neanche io.

Era un pomeriggio soleggiato ed era la prima o la seconda volta che uscivo con questo soggetto. Non mi ricordo cosa avevamo fatto ma era qualcosa di tranquillo tipo prendersi un gelato, camminare in centro o pianificare come riprenderci i mezzi di produzione. Mi dovrebbe riaccompagnare a casa in auto ma mi chiede se voglio invece andare da lui. Io, che non sono nata ieri, gli dico esplicitamente che sì, ma non ho intenzione di fare sesso con lui. Lui ride imbarazzato, credo per l’imbarazzo ma onestamente non lo so più, e dice che vuol solo farmi vedere casa sua e che ci sono pure i suoi. Dico che va bene, mi sento stranamente rassicurata dal fatto che ci sono le persone che lo hanno generato, e il pomeriggio prosegue tranquillo. Mi fanno vedere la casa, ci sono dei murales carini, la casetta in fondo all’orto e un gatto tanto tenero. Dopo aver mostrato che ragazzo per bene con la famiglia per bene lui sia, insiste per andare in camera sua. Io, che continuo a non essere nata ieri, chiedo che cosa ci sarà mai di così interessante in camera sua. È la camera di quando era piccolo, adesso in realtà abita da solo per via del Dottorato e non c’è praticamente nulla. “Ti faccio vedere i libri”. E chi penserebbe di venir stuprata da uno che ti dice che ti fa vedere i libri? Parecchie persone, perché le due cose non hanno la minima connessione. Mentre fissavo la libreria, piena di interessanti graphic novel politiche e vecchi libri scolastici, il soggetto chiude la porta a chiave. Quando gli ho chiesto perché lo avesse fatto non mi pare di aver ottenuto una risposta, o forse non gliel’ho chiesto, pensando che fosse normale magari per lui chiudersi a chiave in camera perché c’è gente che lo fa. Io non l’ho mai avuta la chiave di camera mia, ma anche l’avessi avuta non l’avrei usata per stuprare qualcuno, vi assicuro che l’idea di fare sesso con qualcuno di insicuro della cosa già mi spegne assai, figuriamoci se voglia dire andare contro la sua volontà. Ed ecco che viene in gioco la mia, di volontà. La stanza è chiusa, io continuo a rileggere tutti i titoli della libreria, come in un mantra escapista, e lui si siede nell’unico posto dove ci si può sedere ovvero il letto. Io continuo a mantenermi lontana ma lui comincia ad essere più insistente del mantra nella mia testa. “Dai vieni, siediti un po’ qui”. Non mi ricordo neanche se riuscivo a guardarlo negli occhi, ma dopo un po’ mi sono seduta, mi pare dalla parte opposta. “Vieni qui”. Credo di aver detto no numerose volte, già lo avevo detto prima, ma come ho detto prima rimanevano un po’ nel regno alieno del nulla. E poi ci sono finita io, rigurgitata dal buco nero. Ho smesso di oppormi a qualsiasi cosa, ho provato a lamentarmi del fatto che le persiane fossero alzate, che io non faccio l’amore con così tanta luce, non mi piace. Ma tanto quello lì non era mica fare l’amore. “Ma, no, dai, sei bellissima”. Ci sono pochi momenti nella vita in cui si vorrebbe essere brutte, questo è uno di quelli. Ho sperato che improvvisamente provasse un qualche ribrezzo e si allontanasse schifato ma non è successo ed è riuscito a spogliarmi. Ero una marionetta, mi si poteva muovere a piacere. Poi ad un certo punto però, fortunatamente, mi sono rotta. Sono scoppiata in un pianto nervoso con singhiozzi così forti che, uhm era meglio fermarsi anche per lui. Non capivo cosa mi stesse succedendo, ero anche imbarazzata per la reazione. Mi sono messa in un angolo del letto e ho smesso di rispondere a qualsiasi cosa. Non lo sentivo più. Non lo so quanto sono stata in quelle condizioni, mi ricordo che continuavo a tremare ma non mi pareva di avere freddo. Dopo un incerto lasso di tempo lui mi chiede: “Stai meglio? Possiamo continuare?”

Come è andata avanti ve l’ho già detto. Volevo sistemare le cose, volevo fare finta di nulla, mi sono data la colpa per anni e si è susseguita una lista di cose banali successe ad altre millemila persone perché il pattern è sempre maledettamente uguale. Quando ho chiuso, qualche settimana dopo, con quello che non era neanche il mio ragazzo, lui ha commentato dandomi, con un’incredibile originalità, della vacca.

Per generazioni abbiamo creato questo immaginario dello stupro di notte, nel vicolo, dello sconosciuto maniaco, mentre le statistiche parlano chiaro: sono gli amici, sono i famigliari, sono i mariti, sono quelli con cui esci che ti presentano i genitori. Ed è bene che questa cosa sia sempre più chiara, che se sento un’altra volta la storiella degli immigrati cattivi giuro che mi levo la mascherina solo per sputarvi. E basta con “succede nelle periferie” e basta con i “giganti buoni” e i “vecchietti arzilli”, vaffanculo agli “amori non corrisposti” e i “raptus di rabbia”.  Sono cresciuta con una cultura sessista e misogina, ho interiorizzato un odio per il mio stesso genere e il victim blaming, ho stigmatizzato la mia sessualità e ho finito per essere l’ennesima vittima inconsapevole. E non sapete quante di queste storie continuo a sentire tutti i santi giorni e non sapete quanti no rimangono nella dimensione sensibile parallela, quanta gente viene risucchiata più o meno silenziosamente.

Ma ora basta., veniamo al titolo. Il soggetto mi ha ricontattata durante il lockdown; è successo un po’ a caso e grazie a questo blog, e mi ha contattata come se nulla fosse comestaicosafaiehilcovid. Non solo l’impunità ma una spensieratezza che mi ha uccisa nuovamente. Poi il mio ragazzo mi ha convinta: “Parlaci!”. Ebbene, esistono conversazioni che non esistono e iniziano con “Ciao, ti ricordi quando mi hai stuprata?”. Esistono luoghi in cui era abbastanza normale che non ero tanto sicura, già, ma che lui l’ha pagata col karma dopo, e si dispiace davvero, ed è contento che questa conversazione mi aiuti in qualche modo. Non ha negato nulla, ma ha negato tutto. E io avrei potuto denunciarlo, piangere un pochino più forte, sbattere contro la porta, picchiarlo fino a che non rispettava i miei spazi, indossare una t-shirt con scritto “No means no” magari in italiano, avrei potuto imparare il russo meglio, tagliarmi i capelli più corti, leggere meno Jane Austen e avere un altro nome. Avrei potuto fare tante cose, ma chi mi avrebbe comunque creduta? La verità? Nessuno. Bisogna arrivare al sangue, alle botte visibili, altrimenti è tutto solo un ricamo della percezione su un tessuto di normalità sbagliate.

Ed è con questa consapevolezza che scrivo questo articolo, riportando indietro la vecchia me che era rimasta bloccata nel buco nero e promettendovi che il gender è solo la prima tappa. Che vi decostruiremo tutto, un pezzetto alla volta, vi leveremo da quel piedistallo dove vi siete ritrovati ma lo faremo con la didattica e una narrativa nuova. Che scriveremo cosa deve essere scritto, che diremo quello che deve essere detto e che coi nostri no ci costruiremo un mondo migliore dove se uno ti stupra, almeno ti fa la cortesia di accorgersene. Perché non ci sono solo singoli colpevoli, c’è un problema strutturale le cui fondamenta stanno solo leggermente iniziando a vacillare. E io voglio vedere queste statue dorate cadere come è caduta la mia dignità di persona quel pomeriggio. Voglio che tremiate almeno un quarto di quanto io stia tremando mentre scrivo questo articolo.

Voglio che la sensibilità finisca al potere. Non voglio vendetta, voglio la rivoluzione.

Se sei vittima di violenze chiama il 1522 in Italia e lo 08000 116 016 se sei in Germania ( Il Beratung risponde in 17 lingue, fra cui l’italiano ). Chiama, dai.